Margherita Sarfatti Opere

Nella vita letteraria è possibile osservare le varie tematiche affrontate dalla scrittrice, ma sopratutto un passaggio di evoluzione e mutamento dai libri che hanno contribuito a costruire la sua bibliografia.

Concentrandosi sulle tendenze culturali, l’avversione al positivismo e al razionalismo tipicamente ottocenteschi mette d’accordo già in epoca prefascista personaggi molto diversi sia per caratura culturale che politica come Prezzolini, Papini, Soffici e Corradini. I primi due fondano nel 1908 “La Voce”; il secondo e il terzo, in aperta polemica col primo, nel 1913 fondano “Lacerba”. Entrambe le riviste sono tutte tese al rinnovamento della cultura italiana a colpi di rivoluzioni emotive, poetiche e spirituali della vita. La foggia recisamente antipositivista ma al contempo antisocialista che caratterizza “La Voce” non lascia indifferente la Sarfatti che si complimenta con Prezzolini scrivendogli che la rivista è viva e sincera, riconoscendola come un ottimo sperimento rinnovatore della società, cosa che anche i socialisti, con diverse sfumature, agognano. E’ proprio grazie agli stimoli vociani che, come appunto molti suoi compagni, Margherita si smarca dal socialismo per volgere il suo sguardo politico all’eresia fascista. La goccia che fa traboccare il vaso è il suo sostegno alla guerra, che la pone in chiave antagonista nei confronti del suo partito. A quel punto, sconfessa sia il socialismo che il femminismo, ma anche l’internazionalismo. D’altra parte, acquisisce definitivamente il sentimento nazionalista. Il “salto della quaglia” avviene nel triennio ’12 – ’15 e sarà più tardi condiviso da molti compagni. Sempre più socialisti si convincono del ruolo demiurgico degli intellettuali che soli possono ricostruire la nazione. Fanno propria cioè la concezione mazziniana, mistica e spirituale, che vede nell’élite cerebrale il ruolo guida della missione nazionale.

La carica critica e biasimatrice delle riviste antiliberali e antigiolittiane, come appunto “La Voce” (alla quale la Sarfatti collabora) e “Lacerba”, si riverbera sempre più nella società intellettuale soprattutto grazie alle parole d’ordine interventiste. E’ l’eco guerresca che innesta negli animi dei letterati (perlopiù) nuova verve, più dissacrante e sprezzante che mai. Sono gli anni, questi, in cui Margherita occupa il posto mantenuto dalla Kuliscioff sino al ’14, anno del suo declino: quello di “regina dei salotti”. E sono gli anni in cui conosce un giovane passionale dal nome Benito Mussolini, direttore dell’”Avanti!” dal 12 dicembre 1912. In tutta probabilità, Margherita incontra il futuro Duce durante una delle sue apparizioni nel leggendario salotto della Kuliscioff, subito dopo il congresso di Reggio Emilia. Margherita resta affascinata dal tentativo mussoliniano di trasformare il partito socialista da organizzazione politica ad aristocrazia dell’intelligenza e di volontà.

Nel 1913 Margherita e Benito iniziano una infuocata ma schizofrenica relazione. D’altronde, è noto che Mussolini ama sedurre le donne e garantirsi un certo turn over. Ed è proprio in questo forsennato viavai di amanti che si inserisce il rimpiazzo di Angelica Balabanoff con Margherita, contemporaneamente alla frequentazione con Leda Ravanelli.

I due giovani amanti iniziano la loro congiunta battaglia politica nelle file dell’interventismo, per poi interrompersi molti anni dopo, presumibilmente nel ‘32.

E’ con la partecipazione attiva di Margherita che il futuro Duce fonda il suo nuovo giornale socialista. Il “Popolo d’Italia”, questo il celeberrimo nome del foglio, rappresenta la principale piattaforma dell’interventismo di sinistra.

La “Vergine rossa” non è l’unica icona femminile della sinistra a convertirsi all’interventismo. Nello stesso anno, il ’14, l’ex sindacalista rivoluzionaria e ora anarchica Maria Rygier aderisce alle tesi guerresche di Alceste De Ambris. Tesi esposte nella conferenza milanese che in quell’anno il celebre sindacalista nonché futuro fiumano propone[9]. Non paga di ciò, la Rygier sarà anche ispiratrice del “Manifesto degli anarchici interventisti”, compilato da Oberdan Gigli su invito di Maria.

Durante il suo cambio di pelle in senso interventista Margherita ha 34 anni e si distingue per la sua stimatissima attività di critica d’arte. Il suo salotto in Corso Venezia diventa un passaggio obbligato per tutti quegli intellettuali che covano velleità politiche, ma anche per le giovani promesse dell’arte modernista e per gli esponenti della letteratura internazionale quali Shaw, Joséphine Baker e Cocteau. Avida di successo e di fama, la “Venere rossa” punta sempre più in alto. Non paga del suo prestigiosissimo salotto, ambisce alla creazione di uno stile nazionale in arte e letteratura. Creare una nuova Nazione a colpi di opere artistiche e lettere, ecco il tormentone che infiamma Margherita. Questa ambizione piace al futuro Duce. Ed è il motivo che li lega in modo ancora più fitto. Mussolini capisce sin da subito che i suoi obiettivi di grandezza e quelli della sua amante si assomigliano. E che la sua partner è molto intelligente. In altre parole, che la sua collaborazione è quantomai conveniente. E’ questa consapevolezza che instillerà nei due amanti una formidabile complicità.

Durante l’ascesa al potere del fascismo il compito principale di Margherita è quello di legittimare l’astro nascente. Grazie al suo salotto e alle sue frequentazioni in generale Margherita esercita un ascendente sull’alta società. E’ così che smussa gli angoli rozzi del futuro Duce per introdurlo nella Milano “bene”, formidabile trampolino di lancio per il suo successo. I borghesi liberali si illudono che Mussolini sia “l’uomo giusto al momento giusto” proprio come la Sarfatti lo dipingeva. Convinti che le “parentesi squadriste” siano una degenerazione effimera della “politica dell’ordine” mussoliniana, iniziano a vedere nell’ex socialista la necessaria soluzione allo scompiglio nazionale. La Sarfatti infatti, diventa strategica alla creazione dei nuovi miti, che al movimento fascista sono indispensabili al suo consolidamento al potere. Inizia così la fortuna di Novecento, che ingrossa le sue fila, accogliendo al artisti come Martini, Carrà, Casorati, Rosai e Campigli, provenienti perlopiù dal futurismo ma anche dalla metafisica di De Chirico, protendono al recupero della tradizione italiana.

Nel corso degli anni Venti Margherita denuncia i vari tentativi di dare un marchio fascista alla cultura popolare e alle arti. In un suo articolo celebrativo del primo anniversario della Marcia su Roma spiega lapidaria che il fascismo ispira il “cattivo gusto” e che le uniche opere valide sono il busto di Mussolini creato da Wildt e le vignette politiche di Sironi. Mussolini, obtorto collo, sembra condividere. Ed è proprio per questo motivo che permette a Margherita di essergli maestra in questioni d’estetica. Non a caso nel ’24, alla conferenza nazionale delle organizzazioni artistiche, spiega che i concetti di “Italia” e di “arte” non possono essere disgiunti. Di più. Dice testualmente: “Per secoli l’arte fu la stessa Patria”.

Il suo grande successo tra il pubblico fu nel 1924, quando cioè riceve l’invito ufficiale a partecipare in qualità di gruppo alla Biennale di Venezia. Curiosità: è la prima volta che un gruppo organizzato espone alla Biennale. Il 26 aprile, all’inaugurazione della Biennale, durante il benvenuto di Gentile (in quel frangente ministro della Pubblica istruzione) al Re, un accigliato e scuro in volto Marinetti si mette a urlare “Abbasso Venezia passatista!” E’ il suo modo per lamentare l’esclusione dei futuristi a quel consesso. D’altronde, molti novecentisti provengono dal suo movimento e ciò lo ferisce ancora di più. Ma quel che gli brucia maggiormente è il fatto che il futurismo non è assurto all’arte ufficiale del fascismo. Anzi, sta diventando marginale a tutto vantaggio di Novecento.

Sempre nello stesso anno la Sarfatti è pero anche è arcinota per diffusione del culto del Duce, che trova in Dux, la sua biografia autorizzata da Mussolini, un primo, decisivo collaudo. Morto il marito Cesare nel 1924, aveva iniziato a scrivere la biografia di Mussolini. L’idea era stata di Prezzolini che aveva pensato a un lavoro in inglese capace di illustrare al mondo le caratteristiche del nuovo Primo Ministro italiano. Il libro esce infatti in Inghilterra nel settembre 1925 come The Life of Benito Mussolini, stampato a Londra e recensita da oltre centocinquanta tra giornali e riviste. Questo testo sacro del mito ducesco, ispirerà gli studi del massimo esperto del fascismo Emilio Gentile. Tale anticipazione è spiegata con l’ascendente del genere biografico sviluppato proprio in Gran Bretagna, implicito partner dell’Italia sino almeno alla vigilia dell’aggressione etiopica. L’anno dopo la Mondadori lo stampa in italiano col titolo Dux. Seguiranno ben 17 ristampe in Italia mentre all’estero verrà tradotto subito in 18 lingue comprese il turco e il giapponese. Un libro biografico/apologetico su Mussolini, un libro che poi divenne un best-seller internazionale.Il look del Mussolini versione-Sarfatti era tenebroso e aggressivo, e risultò decisivo per fare del Duce un mito mondiale. Quindi Margherita Sarfatti ebbe un ruolo importante, eppure oggi è una figura pressochè sconosciuta. Su di lei è caduto il silenzio. Di fronte al suo nome, dice l’autrice di un saggio critico sulla storia della letteratura nel periodo fascista, il lettore di oggi è colto di sorpresa. Nel 1926 si tiene la prima mostra ufficiale, seguita da numerose esposizioni in Italia e all’estero. Ma oltre a questo ruolo di punto nell’organizzazione culturale nazionale, la Sarfatti è arcinota per diffusione del culto del Duce, che trova in Dux, la sua biografia autorizzata da Mussolini, un primo, decisivo collaudo.


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Ma Margherita è molto di più di una coordinatrice culturale e di una biografa: è ormai diventata un’ importante stimata critica d’arte. Mentre all’estero il Novecento Italiano trovava una gran seguito e godeva di una discreta fortuna critica, testimoniata dal gran numero di mostre che si assecondarono tra il 1926 e il 1929 in Germania, Francia e Austria, in Italia il movimento sarfattiano trovava sempre più ostacoli e sempre meno appoggi. Il timore maggiore degli avversari del Novecento era che il gruppo potesse monopolizzare la direzione delle mostre e degli eventi culturali, escludendo di fatto tutti gli artisti la cui produzione non poteva essere ricondotta in nessun modo alla teorizzazione estetica espressa dalla Sarfatti. Proprio in questo emergevano le contraddizioni: il Novecento italiano aspirava a voler raccogliere tutta la produzione artistica italiana, “normalizzandola” secondo i canoni del purismo e del realismo magico sviluppatosi nel primo dopoguerra ma, al tempo stesso, appoggiava la diversità delle poetiche proprio per potersi caratterizzare come un movimento ma senza esprimere una tendenza. Mentre dunque in Italia si cerca di ridurre il Novecento ad una delle tante scuole artistiche (al punto che, nella Biennale di Venezia del 1928, i novecentisti non ebbero a disposizione nemmeno una sala in cui esporre) all’estero si tendeva sempre più a riconoscere nelle produzioni novecentiste la maggiore tendenza dell’arte contemporanea italiana. Sul finire degli anni Venti anche l’indirizzo estetico sensibile al realismo magico perde il suo slancio iniziale. Tra gli artisti rimasti fedeli al gruppo sono Arturo Tosi, che aveva sempre goduto della stima della Sarfatti e che inizia proprio sullo scorgere degli anni Trenta a recuperare una pittura di tipo neoimpressionista, e Mario Sironi.

Quest’ultimo, compagno di avventura della Sarfatti dal 1922, nel 1932 teorizza il ritorno alla pittura murale e la sintesi delle arti, per testimoniare l’epoca del ritorno a miti grandiosi, fino a pubblicare sulle pagine de La Colonna il Manifesto della pittura murale in cui vengono enunciati i princìpi per un’arte fascista, sociale, collettiva, educatrice, ispirata ai modelli classici e alle figure arcaiche, in grado di accostare miti antichi e moderni tramite il filtro della monumentalità. Si tratta tuttavia di un percorso personale, che non venne adottato dagli artisti del Novecento italiano per il semplice motivo che tale movimento si era di fatto disgregato, complice l’eclissi dell’astro sarfattiano e l’azione di Giuseppe Bottai, l’allora ministro delle belle arti e della cultura fascista, che cercava di dare spazio anche agli artisti più giovani e intraprendenti. Il Novecento italiano dunque, pur avendo cercato l’appoggio politico di Mussolini, di fatto non fu mai promotore di un’arte di regime (se non nella sola personalità di Sironi negli anni Trenta) ma nacque in un più generale contesto artistico che venne poi impoverito ed estremizzato dalle teorizzazioni fasciste. Va ricordato che grazie alle proprie inclinazioni e ai continui stimoli, Margherita è sempre più invogliata ad approfondirsi nel campo artistico culturale, spirito alimentato poi dai suoi colleghi e stimatori con le continue iniziative quali mostre e conferenze sull’arte italiana. Va citato dunque un importante saggio sulla “Storia della Pittura Moderna”che testimonia del suo interesse per gli sviluppi dell’arte contemporanea europea.


 

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Le Principali opere della scrittrice:

La milizia femminile in Francia, Milano, Rava & C., 1915.
La fiaccola accesa. Polemiche d’arte, Milano, Istituto editoriale italiano, 1919.
L’esposizione post-impressionista e futurista del pittore Emilio Notte, in “Cronache d’attualità”, Roma, 5 giugno 1919.
Cronache del mese, “Ardita”, Milano, I, 15 giugno 1919, p. 254
I vivi e l’ombra. Liriche, Milano, Facchi, 1921; Milano, A. Mondadori, 1934.
Tunisiaca, Milano-Roma, Mondadori, 1923.
Achille Funi, Milano, Hoepli, 1925.
The Life of Benito Mussolini, London, Thornton Butterworth, 1925.
Segni, colori e Luci. Note d’arte, Bologna, N. Zanichelli, 1925.
Dux, Milano, Mondadori, 1926.
Mostra personale del pittore Lorenzo Viani. Dal 18 al 31 gennaio 1929 (esame critico), Milano, Galleria, 1929.
Il palazzone. Romanzo, Milano, Mondadori, 1929.
Storia della pittura moderna, Roma, Cremonese, 1930.
Segni del meridiano, Napoli, Mazzoni, 1931.
Diciottesima Esposizione Biennale Internazionale d’Arte. 1932. Catalogo [con saggi di M. Sarfatti et al.], Venezia, Carlo Ferrari, 1932.
Daniele Ranzoni, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1935.
L’America, ricerca della felicità, Milano-Verona, A. Mondadori, 1937.
Casanova contro Don Giovanni, Milano, A. Mondadori, 1950.
Acqua passata, Bologna, Cappelli, 1955.
L’Amore svalutato, Roma, E.R.S., 1958.

 

Bibliografia:

http://www.finestresullarte.info/percorsi/2010/09-novecento-italiano-arte.php

http://www.mirorenzaglia.org/2013/08/margherita-sarfatti-e-il-novecentismo-tra-fascismo-e-antifascismo/

http://www.scuolaromana.net/personag/sarfatti.htm

http://www.archivioflaviobeninati.com/2013/03/la-madre-ebrea-del-fascismo-margherita-sarfatti/

http://www.storiadimilano.it/Personaggi/Ritratti%20femminili/sarfatti.htm

http://it.wikipedia.org/wiki/Margherita_Sarfatti

Margherita Sarfatti Biografia

Margherita Grassini in Sarfatti, nasce a Venezia. Studiosa di arte e letteratura, attivista politica nel partito socialista, scrisse per numerosi giornali, nota scrittrice, ricordata in particolare per la “relazione” con Benito Mussolini. Margherita, ultima di quatto figli, apparteneva ad una ricca e famosa famiglia ebrea.


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Nata l’8 aprile 1880 da Emma Levi (Emma era cugina di Natalia che sposò il critico letterario antifascista Leone Ginzburg e divenne la famosa scrittrice Natalia Ginzburg) e Amedeo Grassini, due ricchi ebrei della buona società veneziana, Margherita visse un’infanzia incantata tra le mura del palazzo di famiglia situato nella parte vecchia del Ghetto di Venezia. Nel 1894 la famiglia Grassini abbandonò il Ghetto vecchio per stabilirsi in una casa che rispecchiasse meglio il suo crescente prestigio. La nuova abitazione di Margherita fu palazzo Bembo su canal grande. Questa più degna sistemazione, che era appartenuta tra XV e XVI secolo al celebre storico e poeta nonché Cardinale, Pietro Bembo, venne rimessa a nuovo ed ebbe tra l’altro il primo ascensore di Venezia. All’epoca del traferimento Margherita aveva 14 anni ed era un’adolescente straordinariamente bella, ma soprattutto straordinariamente intelligente e sicura di se. Nutrita con l’atmosfera culturale che si respirava nella sua grande casa sempre frequentata da illustri rappesentanti della cultura veneziana e italiana, Margherita conquistava gli ospiti di palazzo Bembo esternando preferenze e pareri tanto definiti quanto particolarmente impegnati per una ragazza ancora nel pieno dell’adolescenza. Quando aveva 12 anni i genitori di Margherita decisero di assecondare la sete di conoscenza che la figlia aveva così bene esternato assumendo dei tutori privati. A quell’epoca era raro che le giovani donne di buona famiglia venissero incoraggiate allo studio della storia e della letteratura. In una cultura ancora profondamente maschilista nella quale gli uomini potevano chiedere il divorzio per adulterio ma le donne no, il futuro che si prospettava alle appartenenti al gentil sesso era semplicemente quello della cura della casa e della propria famiglia. Già molto determinata a non seguire questo schema, ma soprattutto determinata ad imparare e a studiare ogni cosa, Margherita ottenne l’appoggio dei genitori che presero per lei tre tutori privati: Pietro Orsi, Pompeo Molmenti e Antonio Fradeletto. Molmenti era uno studioso della cultura veneziana e accostò Margherita all’arte pittorica e scultorea con l’idea che rafforzassero i valori civili. Sicuramente importantissimo, l’insegnamento di questi due ottimi tutori non quanto però Antonio Fradeletto, che la condusse nel mondo dell’arte e le fece scoprire le opere del critico Jonh Ruskin, divenuto in seguito per la giovane un irrinunciabile punto di riferimento. Il maestro instaurò con la giovane allieva un rapporto intenso, vivacissimo e per nulla univoco, da cui imparò che la vera funzione del critico era spiegare gli ideali che sottendono a una creazione artistica piuttosto che lo stile o la tecnica. Oltretutto Ruskin indicò a Margherita la via dell’arte moderna e lei imparò fin da giovanissima ad apprezzare le audacie dei pittori moderni che condannavano l’accademismo. Essi diedero alla figlia dei Grassini un’educazione di qualità, ampiezza e vigore straordinari. Oltre all’attività accademica erano impegnati in politica e furono poi deputati e sanatori nel Parlamento italiano. Orsi giovane storico che si era occupato a lungo del periodo medievale poi abbandonato a favore della storia dell’Italia contemporanea, lasciò a Margherita un insegnamento che non avrebbe mai dimenticato basato sulla convinzione che il progresso sociale e intellettuale fosse specchio di una nazione almeno quanto lo erano le guerre e la politica. Ma le sue preferenze andavano alle opere moderne, in particolare a quelle del romanticismo, che lei adorava. I romanzi realistici di Balzac e Hugo le fecero conoscere le ingiustizie economiche e l’oppressione a cui erano soggette le donne e i deboli. L’incontro con George Bernard Shaw rafforzò queste idee che erano ormai delle convinzioni. Era questa l’epoca in cui scrittori e intellettuali denunciavano apertamente le convenzioni conservatrici trovando in Margherita Sarfatti una decisa sostenitrice. La sua grande intelligenza nonché apertura mentale la portarono a interessarsi anche a scrittori irriverenti come Gabriele D’Annunzio, che ammirava tanto quanto Oscar Wilde. Arricchita da una formazione così vasta per quantità ma soprattutto per genere, Margherita si trovò però a dover risolvere il conflitto tra la cultura classica, che aveva appreso dai suoi maestri, e le teorie moderne che la sua mente vorace le chiedeva di indagare. Questo contrasto interiore era poi aggravato dall’ambiente famigliare piuttosto religioso. I Grassini erano ebrei ma lei era cresciuta leggendo la Bibbia e i forti legami del padre con il mondo ecclesiastico le avevano mostrato con molta eloquenza le contraddizioni della morale cattolica. Fu a questo punto della sua evoluzione intellettuale che Margherita, ancora diciassettenne, incontrò la causa del femminismo e la teoria del marxismo. Il suo ingresso fra i socialisti italiani avvenne con la pubblicazione di un articolo su una rivista letteraria socialista di Torino. Il pezzo, che sarebbe stato il primo di tanti, era firmato “Marta Grani”. Margherita aveva coniato questo pseudonimo mettendo insieme la prima e l’ultima sillaba del suo nome e del suo cognome. Dopo la pubblicazione dell’articolo, che scatenò l’ira di Amedeo Grassini, Margherita fu accolta nella comunità socialista che subito la ribattezzò la “Vergine rossa” in onore a Louise Michel, femminista che nel 1871 aveva capeggiato la rivolta della Comune di Parigi, primo esperimento di attuazione delle idee socialiste. Margherita si accostò al femminismo ma non del tutto. Cominciò collaborando con “L’Unione femminile”, una rivista edita a Milano e fondata nel 1901 da Ada Negri. È proprio da qui che inizia la presenza attiva e costante di Margherita Sarfatti all’interno della cultura e della politica italiana. Grazie alle amicizie del padre, conosce personalmente famosi letterati, quali Gabriele D’Annunzio e Antonio Fogazzaro. Nel 1898, dopo tre anni di fidanzamento, appena compie 18 anni, sposa l’avvocato – ebreo e anch’egli socialista – Cesare Sarfatti, dal quale prende il cognome con cui firma tutte le sue opere. Dal matrimonio nascono Roberto ed Amedeo. Nel 1902 i Sarfatti si trasferirono a Milano con i due loro figli: Roberto (che morì in battaglia durante la I guerra mondiale) e Amedeo. Nella grande città lombarda Margherita prosegue l’impegno in politica, cominciando a scrivere su l’”Avanti!”, e prosegue la sua passione per l’arte. In evidente contraddizione con la loro fede socialista, Cesare e sua moglie vivevano in un bell’appartamento di via Brera e sostenevano una vita agiata a cui non mancava nulla. Il rifiuto del razionalismo di stampo ottocentesco e il richiamo alla grande varietà di sfumature a cui esso rispondeva, riunì personaggi di diversa cultura ed estrazione come Prezzolini, Papini e Corradini che sarà il maggiore propugnatore del nazionalismo italiano. I primi due invece saranno protagonisti della creazione, nel 1908 de “La Voce” . La posizione antipositivista e anche antisocialista assunta da “La Voce” non dispiacque a Margherita. Nel progetto editoriale di Papini e Prezzolini, Margherita ritrovava l’importanza della partecipazione dell’intellettuale alla costruzione di una nuova società moderna. Tutto questo nucleo ideologico costituì l’avanguardia del suo pensiero fascista che convisse con la militanza nel socialismo riformista, ma che in realtà era già presente e ben radicato perché proveniva direttamente dalla sua prima formazione.


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Nel 1909 diventa direttrice della rubrica dedicata all’arte, sul quotidiano “Avanti” (del partito socialista italiano). Lo stesso anno conosce Benito Mussolini e, vicina alle sue idee, diventa redattrice de “Il Popolo d’Italia”, quotidiano fondato e diretto dal futuro dittatore e collabora nel frattempo con il “La Stampa” di Torino e la rivista di teoria politica “Gerarchia” che dirige dopo il 1922, anno in cui fonda anche il “Gruppo del Novecento” che, a causa della sua adesione al fascismo, vede allontanarsi da lei alcuni artisti,  contrari alla nascita di un’arte fascista. Nel 1913 erano già amanti, ma c’era nel loro rapporto un misto di attrazione e repulsione. Per di più Mussolini trattava le donne con leggerezza, indifferenza e amava corteggiarle. Leda Rafanelli fu sua amante, con tutta probabilità, contemporaneamente a Margherita che aveva rimpiazzato la socialista Angelica Balabanoff. Comunque da quando Margherita entrò nella vita di Mussolini e fino al momento della rottura che si può più o meno collocare nell’anno 1932, il loro fu un sodalizio amoroso, ma anche e soprattutto culturale e in qualche modo formativo. Il primo capitolo della loro storia insieme fu la partecipazione attiva e fondamentale al movimento interventista italiano. Partecipò al nuovo giornale un nuovo giornale fondato da Mussolini: il “Popolo d’Italia” che divenne la principale tribuna attraverso cui lanciare le forte convinzione che una guerra fosse necessaria per curare e restaurare la società italiana. A quel punto della sua vita, all’età di 35 anni, la Sarfatti si trovava in una posizione che le era invidiata da tutti. Era diventata uno dei critici d’arte più rispettati, il suo salotto in corso Venezia aveva assunto un carattere politico che ne rendeva fondamentale la frequentazione a chiunque sperasse o già avesse una qualsiasi posizione di rilievo. Tutto ciò però non bastava a Margherita che, ambiziosa e assetata di potere, vedeva in Mussolini un mezzo con il quale raggiungere il suo scopo. Precisamente ciò che voleva era la creazione di una cultura nazionale ovvero di uno stile nazionale in arte e letteratura. La sua posizione di preminenza all’interno dell’alta società milanese la poneva nella condizione di poter, anche attraverso il suo frequentatissimo salotto, diffondere idee e convinzioni. Margherita sgrezzò il rozzo Mussolini e lo presentò legittimandolo alla Milano “bene”. Il suo sostegno al movimento violento fondato dal futuro duce fu fondamentale perché fece credere alla borghesia liberale che Mussolini fosse l’uomo giusto al momento giusto. In altre parole, Margherita diede al fascismo la necessaria rispettabilità, quella rispettabilità che la borghesia milanese faticava a vedere nello squadrismo e nella brutalità del suo capo.


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Luigi Siciliani tra Benito Mussolini e Margherita Sarfatti presenzia a una manifestazione ufficiale come Sottosegretario delle Belle Arti (1923).


Nel 1924, rimasta vedova, si dedica alla stesura di una biografia su Mussolini, pubblicata inizialmente nel 1925 in Inghilterra, con il titolo “The life of Benito Mussolini” e l’anno successivo in Italia col titolo “Dux”. Margherita fu anche responsabile dell’ufficio stampa che forniva informazioni alla stampa estera, soprattutto statunitense. Quindi fino al 1931-32 questa fu la parte che Margherita svolse. Da quell’anno però la ruota della fortuna girò in senso contrario per questa donna che venne soppiantata nel ruolo di amante ufficiale da Claretta Petacci. I rapporti già tesi con il duce la spinsero prima al margine della sua vita privata e poi anche di quella pubblica. Il varo della legislazione antisemita costringere la Sarfatti (che nel frattempo si è convertita al cattolicesimo) al passo estremo dell’esilio e alla conclusione della sua avventura politico-culturale al fianco del fascismo. Cacciata e ripudiata da Mussolini che le consigliò di far dimenticare più in fretta possibile il suo nome, la Sarfatti si rifugiò prima a Parigi poi nel sud America dove, già molto conosciuta e ammirata, visse fino al 1947. Lo stesso anno torna in Italia e negli ultimi anni della sua vita la Sarfatti s’impegna, un po’ per spirito di vendetta, un po’ perchè oppressa dalla ristrettezza economica, in una trattativa per la vendita del loro corteggiamento privato, costituito da ben 1272 lettere, al miglior offerente della sua corrispondenza con Mussolini. Dopo vari annunci sulla stampa, dell’affare non si fece nulla e quelle lettere rimasero inedite. Segno forse solo involontario e casuale di un legame, tra il dittatore e la sua musa, rimasto segretamente vincolante e tutt’altro che effimero ed occasionale. Muore, pressochè dimenticata il 30 ottobre 1961, nella sua villa del Soldo, vicino a Como all’eta’ di 81 anni.


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Margherita all’età di 80 anni


Sitografia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Margherita_Sarfatti

http://www.storiadimilano.it/Personaggi/Ritratti%20femminili/sarfatti.htm

http://www.mirorenzaglia.org/2013/08/margherita-sarfatti-e-il-novecentismo-tra-fascismo-e-antifascismo/

http://www.archivioflaviobeninati.com/2013/03/la-madre-ebrea-del-fascismo-margherita-sarfatti/

Casino Cunicipale di Lido a Venezia

L’ex-Casinò del Lido venne cominciato il 16 luglio 1936 con Regio Decreto che aveva concesso a Venezia i benefici accordati nel 1927 al Comune di San Remo, rafforzato poi da un secondo del Ministero dell’Interno del 30 luglio 1936 che autorizzava il Comune di Venezia “…all ’esercizio dei giochi d’azzardo” mantenendo fede alla promessa fatta da Galeazzo Ciano in occasione della Mostra del Cinema del 1935 con la quale informava le autorità veneziane che il duce “aveva deciso di accordare il permesso di aprire una casa da gioco… che avrebbe dovuto diventare, in breve tempo, la più elegante d’Europa”. Fu così che i due vicepodestà, Leonida Macciotta e Vilfrido Casellati con il capo dell’Ufficio del Turismo conte Bellegarde , si recarono, all’inizio del 1936, in sopralluogo ai Casinò di San Remo e della Costa Azzurra, a Cannes e Nizza, per esaudire la richiesta di Mussolini. Da subito si vide, nella possibilità di avere a Venezia un Casinò, un’enorme risorsa economica per le casse comunali per gli introiti derivanti da poter riusare nel restauro complessivo della città. Il Podestà Alverà precisava poi il bisogno di tenere aperta d’inverno la casa da gioco, così come in estate. Fu concesso, quindi, di avere una sede estiva al Lido e una invernale in un grande palazzo cittadino, che dopo molte ricerche venne individuato in Ca’Giustinian a San Marco. Nell’ottobre 1936 si iniziò il restauro dell’antica dimora mentre venne appaltata la costruzione ex-novo del Casinò del Lido. L’edificio iniziato nel novembre 1937, venne poi inaugurato ufficialmente il 30 giugno 1938 e aperto al pubblico il 1 luglio 1938. I lavori in parte interessavano l’area del vecchio forte, mentre la maggior parte, circa il 60 %, si sviluppavano in un terreno adibito ad area verde, in cui si ritenne opportuno attuare una palificazione in legno con uno zatterone in calcestruzzo rinforzato in più punti con spezzoni di vecchie rotaie. Era un’opera di carattere monumentale , costituita secondo criteri “moderni”, cioè solo in mattoni e malta con solai in laterizio, e non presentava alcun collegamento in ferro nelle murature verticali. Nel corso dei lavori intervennero parecchie varianti in corso d’opera, emersero difficoltàtecniche data la presenza di una “vasca” nel sottosuolo che costrinse “ a rifare interamente canalizzazioni sotterranee avendo trovato un suolo tutto permeato d’acqua che aveva provocato l’allagamento dei condotti già predisposti..”.L’edificio presenta un aspetto esterno sobrio e compatto, nel quale riecheggiano nel prospetto principale, echi di citazioni dell’architettura piacentiniana. Il nuovo Casinò del Lido fu l’ultima delle grandi opere realizzate durante il ventennio fascista in città e progettate, per conto del Comune di Venezia, dall’Ingegnere Capo Eugenio Miozzi , che con questa costruzione, concluse quella feconda stagione progettuale che aveva portato, in brevissimo tempo, alla modernizzazione novecentesca della città lagunare fortemente voluta dal regime. Basti pensare che nel corso degli anni trenta erano già stati realizzati dal Miozzi tutti quegli elementi costruttivi facenti parte della grande opera detta allora “Opere di congiungimento di Venezia alla terraferma” solennemente inaugurata il 25 aprile 1933. Nella scelta dell’ubicazione del nuovo Casinò aveva, infatti, pesato non poco la vicinanza dell’area all’Hotel Excelsior, dove si tenne nel 1936 la Mostra del Cinema. Erano, infatti, gli anni in cui l’ Amministrazione Comunale, incalzata dal grande mecenate, il conte Volpi di Misurata fautore dell’idea della “Grande Venezia”, promuoveva un organico progetto di riadeguamento funzionale del Lido, che da “luogo ideale” di villeggiatura, diveniva, in breve, il fulcro di un intenso meccanismo economico capitanato dalla Biennale e dalla C.I.G.A (Compagnia Italiana Grandi Alberghi), le quali, una a scopo culturale e l’altra turistico, promuovevano un rilancio a larga scala del cordone litoraneo veneziano. L’Ingegner Miozzi, per la costruzione della casa da gioco, si avvalse della consulenza esterna dell’architetto Guido Iscra e i lavori vennero appaltati alla ditta Danella Domenico per le opere murarie e altre numerose ditte per i lavori di completamento. Il Casinò doveva costituire il centro di un articolato sistema progettuale e occupava per intero la larghezza dell’area dell’ex forte austriaco realizzato all’indomani della seconda guerra d’indipendenza, che opportunamente demolito permise l’utilizzo delle proprie fondazioni e buona parte della muratura per la nuova casa da gioco. L’ambizioso complesso monumentale progettato dal Comune di Venezia era costituito da tre edifici riuniti nella medesima area; prevedeva al centro, il volume della casa da gioco provvista di attrezzature e servizi, a sinistra il Palazzo del Cinema da destinare a sede di spettacoli, concerti e conferenze e a destra un edificio simile al precedente destinato a piscina coperta da utilizzare d’inverno a campo di pattinaggio sul ghiaccio grazie ad un avveniristico impianto frigorifero. Nel progetto iniziale i tre manufatti risultavano collegati tra loro da porticati esterni sino a sviluppare un fronte continuo di 200 metri. abbelliti con fiori, piante e giochi d’acqua. Gli edifici erano , inoltre, congiunti all’Excelsior tramite una serie di passaggi sotterranei, in parte ripristinati recentemente in occasione della Mostra del Cinema, che uscivano sino alla spiaggia ove da maggio a settembre funzionava anche il tiro al piccione.I tre palazzi, circondati da alberi ad alto fusto, limitati da un ampio canale che arrivava sino alla darsena retrostante, venivano serviti da un collegamento pubblico di motoscafi che raggiungeva il centro città come poi avvenne, per molti anni, nei mesi estivi con i motoscafi dell’ACTV.  Nel distributivo interno si procedeva ad un atrio di ben 880 mq. si poteva, poi, accedere al salone da pranzo, a quello del caffè e a quello delle feste ampi rispettivamente 360 mq, 360 mq e 800 mq.; nel lato destro sorgeva un’enorme scala monumentale che portava alle sale da gioco del primo piano articolate in un salone comune di 1.100 mq e un salone di gala di 800 mq. Nel lato sinistro dell’edificio, nettamente separata dal complesso, trovava sede la scala del personale e d’accesso agli uffici, nei corpi di fabbrica adiacenti i vari servizi della casa da gioco e tramite ascensori si arrivava alle terrazze superiori . Il palazzo nella sua nuova imponenza strutturale era caratterizzato anche da novità impiantistiche quali il riscaldamento invernale, il condizionamento estivo, un efficiente servizio di ascensori e montacarichi. Inizialmente il riscaldamento era stato previsto solo al pianoterra perché si pensava che la posizione decentrata del Lido, in inverno, non portasse un gran flusso di visitatori; in realtà i risultati della prima stagione invernale, furono ben superiori alle aspettative. Per la decorazione dell’edificio venne formata una specifica commissione composta da funzionari comunali affiancati da personalità dell’arte quali il pittore Italico Brass, il prof. Guido Cirilli, Direttore della Regia Scuola Superiore di Architettura e dall’ing. Giulio Pancini, ingegnere Capo del Genio Civile. Le ditte che ne curarono l’arredamento esclusivo furono la “Eugenio Quarti” di Milano e il “Gruppo Arti Decorative S.A”. di Venezia, che realizzarono un allestimento raffinato e moderno che sottolineasse il carattere di modernità e avanguardia dell’edificio. Gli interni monumentali vennero particolarmente valorizzati dall’uso di marmi chiari, “..i più belli d’Italia….” specchi, vetri e maestosi lampadari, che sottolineavano la luminosità voluta con l’apertura di grandi finestre. La creazione delle grandi vetrate venne curata dalla Vetrocoke di Marghera, mentre per i vetri artistici ci si avvalse della collaborazione delle rinomate fabbriche muranesi di Venini, Ferro, Toso, Barovier. I marmi principalmente impiegati furono: il fior di pesco Carnico, il Repen del Carso, il Verde Châtillon di Lecco, il Breccia aurora di Valstagno, il Giallo di Siena, il Travertino imperiale, quello delle Querciolaie, di Ascoli, il Nero dell’Agordino, il Verde delle Alpi, la Monzonite del Piemonte, il Rosa di Lasa, la Breccia medicea, il Biancone, la Pietra d’Istria, la Portasanta di Toscana. Si dotò il salone delle feste oltre che di uno speciale impianto luce anche di un palcoscenico meccanico, il quale “…installato al centro della sala…costituiva una particolare novità tecnica essendo il primo in tale genere costruito in Italia…”.  L’avvento della guerra bloccò il sorgere del progettato terzo palazzo che doveva risultare simmetrico al palazzo del cinema in un piazzale scenografico di grande impatto visivo “…senza intralcio di alberi o di altre soprastrutture (pali elettrici, fili, paline, ecc..)” ornato di aiuole e fontane luminose oggetto di attenta progettazione, per creare una immagine moderna e avvenieristica del Lido. La sistemazione urbanistica della totalità dell’area rimase poi irrealizzata accentuando un senso d’incompiutezza esecutiva destinata a giungere sino ai giorni nostri, accentuata oggi dal desolato abbandono definitivo della sede estiva del Casinò.

Quest’opera, singolo esempio di rivoluzionaria architettura razionalista, fu il frutto della stretta collaborazione tra l’amministrazione comunale e il governo fascista e rispondeva alla precisa volontà del regime di imprimere alla città un’immagine modernista estranea alla tradizione lagunare.

E’stata sede estiva del Casinò sino alla fine degli anni Novanta quando la costruzione della sede del casinò di Ca’Noghera, in terraferma, ne decretò la definitiva chiusura .Il Palazzo del Casinò è dal 1999 sede di prestigiosi convegni ed eventi internazionali. I suoi saloni con sontuosi arredi e mosaici in stile veneziano godono di una vista suggestiva sulla Laguna di Venezia e sul Mare Adriatico. La cura particolare per il dettaglio e per le finiture preziose, rendono il Palazzo la location ideale anche per esclusivi eventi mondani. Attualmente la proprietà è comunale e viene riaperto solo in occasione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e concesso in uso, per quei giorni, alla Società di Cultura “La Biennale di Venezia”.


 

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Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1

http://www.provincia.venezia.it/

http://www.venezia-arte.com/

http://www.veneto.to/dove-andare-dettaglio?path=/DoveAndare/CittaDArte/Venezia&lang=it

http://192.168.4.254:4080/nonauth/deny.php?dest=aHR0cDovL3d3dy5nb29nbGUuY29tL3VybD9xPWh0dHA6Ly93d3cuY2FzaW5vdmVuZXppYS5pdC8mc2E9VSZlaT0xQ202Vk96b0NmSEc3QWJxcllHb0FnJnZlZD0wQ0RBUUZqQUEmdXNnPUFGUWpDTkdGTTlXM2Y1bHZpOTBYcDZQeWpiNllLZnF6a3c%3D&host=MTkyLjE2OC40LjMzIGI0YmMyYjdhZGJjYWRlZWVlZTg0NmZjYmEwOTU4OGNh&ID=OCA0&DBL=MjAg&guest=MA%3D%3D

http://www2.comune.venezia.it/lidoliberty/scheda/305.htm

http://www.arte.it/guida-arte/venezia/da-vedere/monumento/ex-casinò-del-lido-5776

http://veniceconvention.com/

http://www.labiennale.org/it/cinema/informazioni/

http://www.labiennale.org/it/news/10-09b.html

Ponte della Vittoria a Belluno

Il Ponte della Vittoria sorge a sud di Belluno, congiungendo Sinistra e Destra Piave tra l’abitato di Borgo Piave e Via Montegrappa tra il 1923 e il 1926. I lavori di realizzazione iniziarono l’11 giugno del 1923, per terminare con l’inaugurazione alla presenza di Re Vittorio Emanuele III il 23 maggio del 1926 e la successiva apertura al traffico il 17 ottobre dello stesso anno. Artefice di questa fondamentale opera per la viabilità cittadina fu l’Ingegner Eugenio Miozzi, celebre al tempo come costruttore di ponti a Venezia, al quale gli venne commissionato dall’aministrazione comunale di Belluno la progettazzione di questa opera. Il ponte si presenta in un’unica arcata, così progettata in modo da evitare i problemi che, a causa della portata e delle piene del Piave, avevano avuto i piloni dei precedenti ponti,mentre le decorazioni (curate dall’architetto Riccardo Alfarè) sono in calcestruzzo. Il materiale scelto fu il cemento armato, che garantì una durabilità nel tempo che i ponti in legno, all’epoca ancora molto diffusi, non potevano garantire. Ancora oggi il Ponte della Vittoria è uno dei simboli della città di Belluno, per il valore estetico ed infrastrutturale dell’opera e per la vista sulla città che dal ponte si dipana. Ad evidenziare ulteriormente il valore simbolico del Piave per i bellunesi, sui pannelli decorativi delle spalle del ponte furono riportati alcuni versi salienti della “Canzone del Piave”, simbolo della resistenza italiana sul fiume durante la Prima Guerra Mondiale. La prima menzione storica dei ponti risale al 1388. Dopodichè una serie di opere edili vennero finanziate per la realizzazione dei ponti, impiegando materiali comuni del luogo, quali legno e pietre. Si ricorda l’arrivo a Belluno dell’architetto veneziano Antonio Da Ponte, autore del progetto del più famoso Ponte di Rialto, nella città lagunare, il cui elaborato per l’attraversamento del Piave a Belluno fu approvato nella seduta di lunedì 12 aprile 1568 dal Maggior Consiglio. La previsione era quella di un manufatto ad unica campata. A fine 1568 il ponte era realtà ma appena dieci anni più tardi una piena del fiume l’avrebbe distrutto. Trascorsero la bellezza di 358 anni prima che il progetto Da Ponte venisse attuato in modo definitivo con il Ponte della Vittoria. Vennero certamente realizzati una serie di ponti nelle vicinanze ma a causa dei continui disagi voluti dal terreno, i rifacimenti necessitavano sempre una localizzazione diversa, non molto lontana dalla pecedente, ma mai nello stesso luogo. Quanto al Ponte della Vittoria si ricorda che si decise di costruirlo com’è dopo aver sperimentato che le piene, soprattutto quelle con l’acqua gonfia di legname, erano in grado di svellere ogni tipo di pilone pur profondamente piantato nel letto del fiume. L’esigenza di costruire un ponte solido nasce dalla necessità, non solo di permettere il libero passaggio di mezzi e persone, ma anche di avere una solida struttura che assicuri resistenza e stabilità e che garantisca una durata permanente. Il ponte di Miozzi vide la posa della prima pietra l’11 giugno 1923; nel novembre di due anni dopo furono realizzate le opere di ancoraggio alle sponde; il 17 ottobre ci fu l’apertura al traffico. Sui pannelli decorativi del manufatto sono riportare le frasi salienti della canzone del Piave Mario.


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Il Ponte durante la sua costruzione


 

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Bibliografia:

“IL NUOVO PONTE SULLA PIAVE A BELLUNO”

Per ventuali approfondimenti consultare i seguenti:

http://comune.belluno.it/albopretorio/Main.do?MVPG=AmvRicercaAlbo

http://www.provincia.belluno.it/nqcontent.cfm?a_id=1

http://www.infodolomiti.it/dolomiti.run?0,L=0

http://www.provincia.belluno.it/nqcontent.cfm?a_id=372

Casa del Balilla a Belluno

La casa del Balilla  a Belluno fu costruita tra il 1933 e il 1936 dagli architetti Francesco Mansutti e Gino Miozzo. L’opera nazionale balilla che Reanato Ricci definiva«la più fascista delle organizzazioni fasciste» è stato il più gigantesco esperimento di educazione di Stato che la storia ricordi che, ragione dei compiti, il regime fascista aveva assegnato all’Onb, e cioè l’educazione delle nuove generazioni.  L’Onb vantava quindi «al più gigantesco esperimento di educazione di Stato che la storia ricordi: formare in senso patriottico e unitario, cioè fascista, le classi più giovani di un popolo, che, in quindici secoli di dominazione straniera e nel primo periodo della sua brevissima esperienza di Stato nazionale, aveva acquistato idee e mentalità assai difformi da quelle affermate dalla Rivoluzione delle camicie nere». Nell’ambito della tendenza alla defascistizzazione retroattiva del fascismo, anche il problema del rapporto tra fascismo e architettura ha trovato soluzioni che o hanno negato l’esistenza di una reale connessione ideologica o hanno postulato la discriminazione fra architetti “buoni”, cioè moderni, razionalisti, funzionalisti e, pertanto, antifascisti, e architetti “cattivi”, cioè tradizionalisti, retorici, pomposi e, pertanto, fascisti. La “buona architettura” del periodo fascista sarebbe stata ideologicamente neutra e il coinvolgimento di molti architetti “buoni” nelle opere del regime sarebbe stato frutto di ingenuità o di un adattamento convenzionale, senza convinzione, ai rituali del regime. Da questo edificio appare confermata l’ipotesi che l’eclettica ricerca di uno “stile fascista” in architettura, condotta con uno sperimentalismo in sintonia con lo sperimentalismo totalitario del regime, abbia contribuito alla definizione di una cultura fascista, attraverso le costruzioni del «fascismo di pietra». I giovani architetti, chiamati da Ricci a realizzare il nuovo stile dell’architettura fascista, erano accomunati dal convincimento della funzione sociale dell’architettura e dalla ricerca di uno stile originale conforme agli scopi dell’Onb senza essere uniforme, e tale da esaltare, con la sua netta e preminente visibilità, la costruzione fascista nella promiscuità dello spazio urbano. Le case del balilla, scriveva nel 1936 Luigi Moretti – il giovane architetto chiamato da Ricci nel 1933, dovevano essere come gli edifici dei gymnasi greci e romani, «la più alta espressione di civiltà politica», dovevano esprimere «la nuova grande civiltà, il nuovo “modo di vita” fascista nel mondo». Alla funzionalità semplice e razionale, posta come criterio fondamentale dell’architettura dell’Onb, Mansuzzi aggiungeva l’esigenza, altrettanto dominante, del simbolismo sacrale, che era del tutto coerente con il carattere fideistico dell’educazione fascista. «D’altra parte – osserva Marco Mulazzani nel suo saggio – la qualità dell’architettura delle case dedicate all’educazione della gioventù italiana non può dipendere dalle tendenze artistiche né può essere il risultato “accidentale” del talento dell’architetto, ma si misura dal livello di aderenza di quei manufatti alla politica del fascismo e alle “ragioni di Stato”». Di particolare rilevanza sono i cambiamenti avvenuti dopo il 1936, che fanno maggiormente risaltare la vivace e audace modernità di molte case del balilla edificate negli anni precedenti. Chi osserva queste costruzioni, affascinato dalla loro architettura sobria e severa e, nello stesso tempo, ariosa e luminosa, potrebbe essere indotto a defascistizzarle, dimenticando la funzione alla quale erano destinate e che, per consapevole scelta dei loro autori, influiva sul loro stesso stile. Infatti entro questi seducenti edifici fu attuato un “gigantesco esperimento di educazione di Stato”, che svuotava le nuove generazioni della loro personalità e le plasmava secondo un modello di “cittadino soldato”, che esaltava l’annientamento dell’individuo in una collettività di massa entusiasta e adorante, destinata a vivere e a esaurire la propria esistenza nell’asservimento ai comandamenti di uno Stato totalitario.


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Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://www.artefascista.it/belluno__fascismo__arch.htm

http://www.electaweb.com/catalogo/scheda/978883703689/it

http://www.comune.belluno.it/web/belluno

http://www.provincia.belluno.it/nqcontent.cfm?a_id=372

Casa del Mutilato a Rovigo

In largo Libertà, dietro il monumento a Giovanni Miani si cela l’anonima Casa del Mutilato di guerra, progettata nel 1930. L’edificio come tutte le strutture simili in Italia, venne edificato come un’opera statale ma soprattutto sociale, a dimostrazione di uno stato  che negli anni successivi al grande conflitto mondiale e successivamente all’instaurazione del regime fascista, si “prendeva cura” di tutti coloro che, in qualche modo erano rimasti invalidi o incapaci di esercitare le attività quotidiane a causa della guerra. A guardarla con maggiore attenzione si notano i fregi e una statua. Quest’ultima sulla sinistra dedicata all’esploratore Giovanni Miani ed i fregi della casa del mutilato di guerra sono stati eseguiti da Virgilio Milani. Realizzati nel 1954, i rilievi di Virgilio Milani che decorano la Casa del Mutilato sono frutto di una ricerca formale orientata in funzione espressiva, sono testimonianza di un attento interesse per i temi del sociale, manifestato dall’artista rodigino in tutta la fase centrale della sua esperienza creativa.  Virgilio Milani nacque a Rovigo nel 1888; trascorso il tempo della formazione, compiuta all’Accademia di Belle Arti di Venezia, fece ritorno nella città natale, per stabilirvisi e trascorrervi tutta la sua vita personale e artistica: qui fu testimone delle vicende storiche che colpirono e trasformarono il Rodigino e il Polesine durante il Novecento, segnando nel territorio il passaggio da un’economia e una società rurali, ancora legate schemi antichi, basate sull’agricoltura e l’allevamento, a un sistema produttivo industriale, con tutte le conseguenze e le ripercussioni nell’equilibrio delle comunità locali. Come la critica ha avuto modo di sottolineare anche in tempi recenti, Milani è scultore ‘pubblico’ per eccellenza. Se gli anni del primo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra si riflettono nella sua produzione attraverso una serie di commesse a destinazione funeraria o commemorativa e celebrativa, ben attestate dal monumento a Cesare Battisti presso la Gran Guardia, o dai vari cenotafi dedicati ai soldati caduti nei Comuni della Provincia, acquisiscono invece un’impronta diversa, maggiormente caratterizzata nel senso di un deciso impegno civile e sociale, le opere del secondo dopoguerra, tra le quali appare emblematico la casa del Mutilato di Gerra a Rovigo


 

L’Edifico all’esterno

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I rilievi dei Fregi

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Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Miani

http://it.wikipedia.org/wiki/Virgilio_Milani

http://www.comune.rovigo.it/

http://www.provincia.rovigo.it/web/provro

http://www.turismocultura.it/

Miozzi precursore di idee, di grandissima attualità

Il Ponte della Littorio, conosciuto ora come Ponte della Libertà, è il ponte stradale e ferroviario di circa quattro chilometri (3 850 m circa) che collega il centro storico di Venezia con la terraferma. Esso costituisce l’unica via d’accesso per il traffico veicolare a Piazzale Roma e all’Isola del Tronchetto e per il traffico ferroviario alla Stazione di Venezia Santa Lucia. Già dal 1846, quando Venezia era inclusa nel Regno Lombardo-Veneto, allora appartenente all’Impero Asburgico, esisteva una linea ferroviaria che collegava la città all’entroterra veneto. Il grandioso ponte sulla laguna veneta venne inaugurato il giorno 11 gennaio 1846 e aperto al pubblico il giorno 14 successivo. L’ingegnere Noale ha diretto i lavori del ponte. L’ingegnere Bermani quelli dell’armamento. Per l’esecuzione dei lavori il Petich fu assistito dall’amicizia dell’ingegnere Pietro Modulo, parente del celebre giurista di Padova, Antonio Modulo, autore, assieme a Gio. Batta Cavalini, del famoso Notarelon, primo inventario alfabetico analitico degli atti civili esistenti in città. Al tempo della sua costruzione era il ponte più lungo del mondo. Nel 1931, Eugenio Miozzi ingegniere, fu trasferito a Venezia quale vincitore del Concorso Pubblico per Titoli di Ingegnere della Direzione Lavori e Servizi Pubblici del Comune: divenne, in tal ruolo, l’indiscusso regista della grande trasformazione novecentesca della città destinata a stravolgere equilibri secolari. Esercitò il ruolo di tecnico comunale per oltre vent’anni, in momenti non facili della storia nazionale, che lo portò ad essere considerato l’ultimo grande “costruttore veneziano”, ma subire, al tempo stesso, una temporanea sospensione dal servizio nell’immediato dopoguerra per esserne poi riammesso poco dopo a pieno titolo e collocato definitivamente a riposo, per limiti di età, il 31 dicembre 1954. Attuando una rivoluzione urbanistica di importanza paragonabile, se non superiore, a quella esercitata dal governo austriaco a metà ottocento collegò definitivamente Venezia alla terraferma con la creazione del ponte automobilistico ribadendo la nuova direttrice di sviluppo della parte occidentale della città divenuta, poi, a tutti i livelli, l’area definitiva di accesso al centro storico lagunare. L’ingeniere riprese riprese il progetto dell’ingegner Vittorio Umberto Fantucci, affiancando al tratto ferroviario quello stradale, con ovvie e opportune modifiche e rimaneggiamenti. I lavori rientravano in un grande e ambizioso progetto, redatto interamente dal Miozzi, che andava sotto il nome di “Opere di congiungimento di Venezia alla terraferma”. Inaugurato il 25 aprile 1933 con il nome di ponte Littorio dai principi di Piemonte Umberto e Maria José in presenza di Benito Mussolini, che il giorno dell’inaugurazione percorsero il ponte in macchina, sostarono e attraversarono a piedi il Piazzale Roma per poi, a bordo di un motoscafo, passando per il Rio Nuovo giungere sino a San Marco. Al termine della seconda guerra mondiale, nel 1945 fu ribattezzato con l’odierno nome in ricordo della liberazione dal nazi-fascismo. Le riserve con le quali la sua opera venne spesso valutata furono il sintomo più evidente del disagio conseguente al grande processo di riqualificazione urbana realizzato dal fascismo, che spesso si accanirono sulla sua figura di tecnico comunale come chi, più di chiunque altro, aveva promosso un traumatico rinnovamento scuotendo Venezia dall’immobilismo. Il ponte ferroviario, originariamente a due binari, venne ampliato negli anni settanta del XX secolo per accogliere quattro binari. I due binari nuovi furono attivati il 20 novembre 1978, ma subito dopo vennero chiusi quelli vecchi per risanare la struttura; l’esercizio su tutti i quattro binari iniziò nel 1984. L’opera che quindi legò definitivamente il nome dell’ingegner Miozzi al futuro di Venezia fu la creazione del Ponte della Libertà, allora detto “Ponte del Littorio” che collegava Venezia alla terraferma via gomma, con, in contemporanea, la creazione del Piazzale Roma, l’escavo del Rio Nuovo con la costruzione dei suoi relativi ponti , e la realizzazione del Garage Comunale. Dal punto di vista dell’odierna rete stradale italiana, il ponte rientra nel tratto finale della strada statale 11 Padana Superiore ed è gestito da Veneto Strade. È costituito da due corsie per senso di marcia affiancate da due larghi marciapiedi con funzione anche di pista ciclabile; l’ultimo tratto dalla parte di Venezia presenta un solo marciapiede (manca quello del lato ferrovia) in quanto la carreggiata in direzione Venezia diventa a tre corsie, con una corsia riservata al trasporto pubblico. La sede stradale ospita inoltre i binari della linea tranviaria che collegherà Venezia al centro di Mestre. Il periodo comunale del Miozzi , negli anni trenta, coincise con l’epopea fascista caratterizzata da un monumentalismo di regime e dalla logica di sventramento del “piccone risanatore”, che impresse in breve tempo alla città una svolta modernista. Miozzi, ne fu l’abile mediatore, sempre, però, rispettoso della singolarità veneziana; progettò ed effettuò la sostituzione dei due ponti in ferro sul Canal Grande, con il ponte dell’Accademia in legno provvisorio (inaugurato il 19 febbraio 1933) e il Ponte degli Scalzi in pietra (inaugurato il 28 ottobre 1934). Erede della cultura eclettica degli ingegneri ottocenteschi si dedicò a problematiche di largo respiro che spaziavano dalla progettazione edilizia a quella infrastrutturale con un’intuizione quasi preveggente delle problematiche future della città. Infatti, nel 1939, alla vigilia dello scoppio della guerra, Miozzi curò “il Progetto di massima per il piano di risanamento di Venezia insulare” destinato a rappresentare un’importante fase nella storia della pianificazione urbanistica veneziana. Consisteva in provvedimenti di salvaguardia indispensabili per il risanamento della città e partendo dalle premesse del piano del 1891, valutava la situazione abitativa, evidenziava le aree costruibili, comprendeva provvedimenti in materia idraulica e di defluibilità delle acque. Lasciata l’attività pubblica Miozzi si dedicò ad un’intensa attività privata che lo portò a continuare la sua opera di costruttore, a occuparsi della creazione di numerosi impianti idroelettrici in alto Cadore e allo studio delle problematiche lagunari legate alle acque alte lavorando con il figlio ing. Giuseppe Miozzi e il genero ing. Mario Croff. Negli ultimi anni di incessabile attività, sino alla morte avvenuta il 10 aprile 1979, si dedicò ai problemi di salvaguardia di Venezia dalle acque alte studiando i fenomeni di subsidenza e eustatismo. Ha lasciato una miriade di scritti e l’opera omnia sulla storia di Venezia:“Venezia nei secoli”. La sua lucidità nel cogliere e prevedere, in tempi non ancora maturi, con grande razionalità e lungimiranza le problematiche future di Venezia , fanno di lui il precursore di idee di grandissima attualità. La sua versatilità e poliedricità non furono mai interamente comprese, avendo essenzialmente operato per Venezia soprattutto in un’epoca di successiva rimozione storica collettiva. Per tal motivo, la sua opera è stata spesso sminuita, fastidiosamente denigrata, com’ebbi modo di riscontrare al tempo della stesura della mia tesi di laurea, con la quale, per la prima volta, veniva affrontata la sua discussa figura, grazie soprattutto alla collaborazione della sua famiglia. Solo ora, nel terzo millennio, dopo tanto tempo, si comincia a rivalutare il lavoro di questo valentissimo ingegnere liberandolo dai retaggi culturali dell’epoca in cui operò e rileggendo la sua testimonianza in maniera oggettiva.


 

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Il ponte nei primi anni di utilizzo


 

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Ponte del Littorio negli anni trenta


 

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Ponte della libertà oggi


 

Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://www.artefascista.it/venezia__fascismo__archite.htm

Venezia 1931. Costruzione del ponte della libertà. – YouTube

http://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Miozzi

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1

http://www.turismovenezia.it/

http://www.unesco.it/cni/

Citta sociale Oltreagno a Valdagno

Valdagno è un comune italiano di 26 640 abitanti[2] della provincia di Vicenza, ed ha una superficie territoriale di 50,20 km² con un’altimetria che varia dai 214 m s.l.m. ai 1340 m s.l.m. Dopo i tragici eventi della seconda guerra mondiale la zona ha registrato significativo sviluppo economico e sociale, soprattutto nella metà degli anni sessanta del 1900. Valdagno si estende intorno al torrente Agno da cui deriva il suo nome. Il suo territorio si espande lungo la valle omonima, protendendosi nelle colline circostanti; le Piccole Dolomiti e gli Alti Lessini. La presenza dell’Agno influenzò sia le origini che lo sviluppo della città, fornì acqua agli abitanti, incrementando le attività industriali, soprattutto nel settore tessile. In questa città infatti, è nata la fabbrica tessile Marzotto e aveva sede la famosa catena alberghiera italiana dei Jolly Hotels. La valle dell’Agno è orientata da ovest a est e questo induce la penetrazione di venti e correnti d’aria dal mare adriatico con conseguenze sul clima. Valdagno è tra le Città decorate al Valor Militare per la Guerra di Liberazione perché è stato insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare per i sacrifici delle sue popolazioni e per la sua attività nella lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale, un esempio è l’uccisione dei sette partigiani avvenuta il 3 luglio 1944. Gran parte della sistemazione urbanistica della città risale al Settecento, nel periodo della Repubblica Veneta ma, sulla sinistra dell’Agno, località conosciuta come Oltreagno, sorge su una vasta area un importante centro urbanizzato delimitato da ampie strade ed aiuole voluto ed edificato da Gaetano Marzotto (1894-1972).
Tale centro, denominato “la Città sociale” appare testimone di un progetto che voleva essere un modello culturale di integrazione tra fabbrica e società, tra dimensione famigliare e attività sociali, ricreative e sportive. È proprio questo territorio, situato sulla riva sinistra del fiume Agno, che l’industriale Gaetano Marzotto junior impiega per dar vita ad un nuovo quartiere, pensato come una città completa ed autonoma, dotata di propri luoghi di lavoro e di un sistema di servizi; il quale sarà poi definito “Città Sociale” o “Città dell’Armonia”. Per la realizzazione di quest’opera, allo stesso tempo innovativa e grandiosa, il committente chiamò un volto nuovo dell’architettura di quegli anni, l’ing. Francesco Bonfanti. Il complesso urbanistico è disposto attorno alle istituzioni sociali della Fondazione Marzotto (asilo nido, scuola materna, casa di riposo) e agli impianti ricreativi (piscina, stadio, dopolavoro aziendale); c’è anche la scuola di musica, sede del prestigioso complesso strumentale “V. E. Marzotto – Città di Valdagno” che vanta oltre un secolo di attività. Verso sud, la cittadella degli studi, con le scuole elementari, la scuola media, i licei e l’istituto tecnico industriale Marzotto. Ma concentrandoci sul sul nucleo abitativo che si sviluppò oltre il fiume Agno, a partire dagli anni ’30 si ha quindi la costruzione degli edifici che Bonfanti ideò, pensò e realizzò fondendo tecniche e materiali classici e moderni. Nel complesso l’architettura, la quale risente sia di spunti moderni che liberty, si è rivelata fatta di forma e funzionalità, in quanto in grado di trasformare elementi funzionali in elementi decorativi. Inoltre rappresenta l’esaltazione dell’opera artigianale e della pianificazione tecnico-industriale, essendo il frutto di un vero e proprio processo formativo come quello che diffondevano gli ideali del regime fascista. La città si divide in zona nord, zona centrale e zona sud ma, lo spezzone di nostro interesse è situato nella zona nord.


Zona nord:
principalmente adibita a grandi edifici residenziali e appartamenti, presenta anche una serie di villini:

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Case e quartieri per Impiegati e operai

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Villaggio Margherita


 

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Le ville dei Dirigenti 


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Azienda Marzotto


 

Zona centrale:
presenta sia edifici di carattere residenziale che il Teatro Impero, il Dopolavoro Aziendale Marzotto (DAM) dove sorse una delle prime piscine coperte italiane, lo Stadio dei Fiori, il Maneggio coperto, la Scuola di Musica e le altre Istituzioni scolastiche:

Teatro Rivoli

Il teatro rivoli. Uno dei più grandi teatri del Nord-Est.


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Le scuole della città sociale


 

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Il Dopolavoro Aziendale (DAM)


 

Zona sud:
prevalentemente residenziale, comprende i quartieri operai “alla Palazzina”, “all’Ospedale” e “Lungo Agno” confinati con l’Ospedale e la piscina scoperta.


 

Zona est:
occupata dall’azienda agricola dei Marzotto, “La Favorita”, fu destinata prima alla produzione ortofrutticola, avicola e all’allevamento per essere successivamente adibita ad ospitare una villa iniziata ma mai completata.

Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Marzotto

http://www.vitourism.it/a_ITA_8677_1.html

http://www.comune.valdagno.vi.it/

http://www.comune.valdagno.vi.it/citta/info-turistiche

http://www.provincia.vicenza.it/

Palazzo delle Poste

Piazza delle Poste, in realtà una via (contrà Garibaldi) secondo lo stradario civico, è conosciuta localmente come piazza delle Poste per la presenza della sede del principale ufficio postale; l’edificio è uno dei maggiori esempi di architettura razionalista italiana in città. La piazza ospita una fontana (la Fontana dei Bambini) del 1984, con sculture in bronzo di Nereo Quagliato. Si tratta di uno dei poli della movida serale della città vista la presenza di numerosi locali per il “rito dello spritz”


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Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://www.artefascista.it/vicenza_fascismo__italia__architettura.htm

http://www.comune.vicenza.it/

http://www.vicenzae.org/

http://www.vicenzae.org/ita/turismo-cinematografico/itemlist/category/4