Ponte della Vittoria a Belluno

Il Ponte della Vittoria sorge a sud di Belluno, congiungendo Sinistra e Destra Piave tra l’abitato di Borgo Piave e Via Montegrappa tra il 1923 e il 1926. I lavori di realizzazione iniziarono l’11 giugno del 1923, per terminare con l’inaugurazione alla presenza di Re Vittorio Emanuele III il 23 maggio del 1926 e la successiva apertura al traffico il 17 ottobre dello stesso anno. Artefice di questa fondamentale opera per la viabilità cittadina fu l’Ingegner Eugenio Miozzi, celebre al tempo come costruttore di ponti a Venezia, al quale gli venne commissionato dall’aministrazione comunale di Belluno la progettazzione di questa opera. Il ponte si presenta in un’unica arcata, così progettata in modo da evitare i problemi che, a causa della portata e delle piene del Piave, avevano avuto i piloni dei precedenti ponti,mentre le decorazioni (curate dall’architetto Riccardo Alfarè) sono in calcestruzzo. Il materiale scelto fu il cemento armato, che garantì una durabilità nel tempo che i ponti in legno, all’epoca ancora molto diffusi, non potevano garantire. Ancora oggi il Ponte della Vittoria è uno dei simboli della città di Belluno, per il valore estetico ed infrastrutturale dell’opera e per la vista sulla città che dal ponte si dipana. Ad evidenziare ulteriormente il valore simbolico del Piave per i bellunesi, sui pannelli decorativi delle spalle del ponte furono riportati alcuni versi salienti della “Canzone del Piave”, simbolo della resistenza italiana sul fiume durante la Prima Guerra Mondiale. La prima menzione storica dei ponti risale al 1388. Dopodichè una serie di opere edili vennero finanziate per la realizzazione dei ponti, impiegando materiali comuni del luogo, quali legno e pietre. Si ricorda l’arrivo a Belluno dell’architetto veneziano Antonio Da Ponte, autore del progetto del più famoso Ponte di Rialto, nella città lagunare, il cui elaborato per l’attraversamento del Piave a Belluno fu approvato nella seduta di lunedì 12 aprile 1568 dal Maggior Consiglio. La previsione era quella di un manufatto ad unica campata. A fine 1568 il ponte era realtà ma appena dieci anni più tardi una piena del fiume l’avrebbe distrutto. Trascorsero la bellezza di 358 anni prima che il progetto Da Ponte venisse attuato in modo definitivo con il Ponte della Vittoria. Vennero certamente realizzati una serie di ponti nelle vicinanze ma a causa dei continui disagi voluti dal terreno, i rifacimenti necessitavano sempre una localizzazione diversa, non molto lontana dalla pecedente, ma mai nello stesso luogo. Quanto al Ponte della Vittoria si ricorda che si decise di costruirlo com’è dopo aver sperimentato che le piene, soprattutto quelle con l’acqua gonfia di legname, erano in grado di svellere ogni tipo di pilone pur profondamente piantato nel letto del fiume. L’esigenza di costruire un ponte solido nasce dalla necessità, non solo di permettere il libero passaggio di mezzi e persone, ma anche di avere una solida struttura che assicuri resistenza e stabilità e che garantisca una durata permanente. Il ponte di Miozzi vide la posa della prima pietra l’11 giugno 1923; nel novembre di due anni dopo furono realizzate le opere di ancoraggio alle sponde; il 17 ottobre ci fu l’apertura al traffico. Sui pannelli decorativi del manufatto sono riportare le frasi salienti della canzone del Piave Mario.


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Il Ponte durante la sua costruzione


 

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Bibliografia:

“IL NUOVO PONTE SULLA PIAVE A BELLUNO”

Per ventuali approfondimenti consultare i seguenti:

http://comune.belluno.it/albopretorio/Main.do?MVPG=AmvRicercaAlbo

http://www.provincia.belluno.it/nqcontent.cfm?a_id=1

http://www.infodolomiti.it/dolomiti.run?0,L=0

http://www.provincia.belluno.it/nqcontent.cfm?a_id=372

Casa del Balilla a Belluno

La casa del Balilla  a Belluno fu costruita tra il 1933 e il 1936 dagli architetti Francesco Mansutti e Gino Miozzo. L’opera nazionale balilla che Reanato Ricci definiva«la più fascista delle organizzazioni fasciste» è stato il più gigantesco esperimento di educazione di Stato che la storia ricordi che, ragione dei compiti, il regime fascista aveva assegnato all’Onb, e cioè l’educazione delle nuove generazioni.  L’Onb vantava quindi «al più gigantesco esperimento di educazione di Stato che la storia ricordi: formare in senso patriottico e unitario, cioè fascista, le classi più giovani di un popolo, che, in quindici secoli di dominazione straniera e nel primo periodo della sua brevissima esperienza di Stato nazionale, aveva acquistato idee e mentalità assai difformi da quelle affermate dalla Rivoluzione delle camicie nere». Nell’ambito della tendenza alla defascistizzazione retroattiva del fascismo, anche il problema del rapporto tra fascismo e architettura ha trovato soluzioni che o hanno negato l’esistenza di una reale connessione ideologica o hanno postulato la discriminazione fra architetti “buoni”, cioè moderni, razionalisti, funzionalisti e, pertanto, antifascisti, e architetti “cattivi”, cioè tradizionalisti, retorici, pomposi e, pertanto, fascisti. La “buona architettura” del periodo fascista sarebbe stata ideologicamente neutra e il coinvolgimento di molti architetti “buoni” nelle opere del regime sarebbe stato frutto di ingenuità o di un adattamento convenzionale, senza convinzione, ai rituali del regime. Da questo edificio appare confermata l’ipotesi che l’eclettica ricerca di uno “stile fascista” in architettura, condotta con uno sperimentalismo in sintonia con lo sperimentalismo totalitario del regime, abbia contribuito alla definizione di una cultura fascista, attraverso le costruzioni del «fascismo di pietra». I giovani architetti, chiamati da Ricci a realizzare il nuovo stile dell’architettura fascista, erano accomunati dal convincimento della funzione sociale dell’architettura e dalla ricerca di uno stile originale conforme agli scopi dell’Onb senza essere uniforme, e tale da esaltare, con la sua netta e preminente visibilità, la costruzione fascista nella promiscuità dello spazio urbano. Le case del balilla, scriveva nel 1936 Luigi Moretti – il giovane architetto chiamato da Ricci nel 1933, dovevano essere come gli edifici dei gymnasi greci e romani, «la più alta espressione di civiltà politica», dovevano esprimere «la nuova grande civiltà, il nuovo “modo di vita” fascista nel mondo». Alla funzionalità semplice e razionale, posta come criterio fondamentale dell’architettura dell’Onb, Mansuzzi aggiungeva l’esigenza, altrettanto dominante, del simbolismo sacrale, che era del tutto coerente con il carattere fideistico dell’educazione fascista. «D’altra parte – osserva Marco Mulazzani nel suo saggio – la qualità dell’architettura delle case dedicate all’educazione della gioventù italiana non può dipendere dalle tendenze artistiche né può essere il risultato “accidentale” del talento dell’architetto, ma si misura dal livello di aderenza di quei manufatti alla politica del fascismo e alle “ragioni di Stato”». Di particolare rilevanza sono i cambiamenti avvenuti dopo il 1936, che fanno maggiormente risaltare la vivace e audace modernità di molte case del balilla edificate negli anni precedenti. Chi osserva queste costruzioni, affascinato dalla loro architettura sobria e severa e, nello stesso tempo, ariosa e luminosa, potrebbe essere indotto a defascistizzarle, dimenticando la funzione alla quale erano destinate e che, per consapevole scelta dei loro autori, influiva sul loro stesso stile. Infatti entro questi seducenti edifici fu attuato un “gigantesco esperimento di educazione di Stato”, che svuotava le nuove generazioni della loro personalità e le plasmava secondo un modello di “cittadino soldato”, che esaltava l’annientamento dell’individuo in una collettività di massa entusiasta e adorante, destinata a vivere e a esaurire la propria esistenza nell’asservimento ai comandamenti di uno Stato totalitario.


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Per eventuali approfondimenti consultare i seguenti siti:

http://www.artefascista.it/belluno__fascismo__arch.htm

http://www.electaweb.com/catalogo/scheda/978883703689/it

http://www.comune.belluno.it/web/belluno

http://www.provincia.belluno.it/nqcontent.cfm?a_id=372